In questa pagina troverai i possibili incubi da selezionare nella creazione del personaggio. Tieni a mente che ne puoi selezionare solo uno, che sarà una delle pochissime cose che il tuo personaggio ricorderà nelle Borderlands, e che si sentirà legato a tutti gli altri personaggi con lo stesso incubo.
Ti ritrovi in un corridoio interminabile pieno di porte trasparenti e numerate. All’interno di ogni stanza ci sono cumuli di banconote. Ogni volta che apri una porta, le banconote si trasformano in vecchi giornali che iniziano a volteggiare. Ti senti frustrato e ti accorgi che ci sono altre persone come te che escono dalle stanze, in agitazione. Ti guardano, sono terrorizzati da qualcosa che è alle tue spalle. Tu non riesci a girarti ma senti un suono fastidioso che risuona sempre più forte. Scappi lungo il corridoio che sembra senza fine. Le porte sono sparite e resti solo e disperato, un suono martellante nella testa. Non sai perché, ma sai di essere spacciato.
Questo non sembra affatto un incubo. Sei seduto a cena con una famiglia sorridente. Due genitori e due ragazzi adolescenti. Si mangia pollo fritto e si ride parlando di una partita di Baseball. Poi ti accorgi che la tavola è silenziosa. I ragazzi non ci sono più, le sedie vuote. I due genitori ti guardano, gli occhi segnati da lacrime e dolore. Non sai cosa sia successo, ma sai che sei stato tu. Esci in strada e ci sono altre case, altre famiglie altri ragazzi con un futuro. E tu stai andando a toglierglielo.
Ti trovi in un parco giochi immerso in una luce estiva, i bambini ridono e corrono tra le altalene. Un venditore di giocattoli spinge il suo carretto, una musica allegra lo accompagna. Poi noti che nelle mani dei bambini appaiono pistole giocattolo. Il venditore sorride e tu ti accorgi che queste sono vere, fredde, letali. Il rumore delle risate si trasforma in esplosioni e il cielo si riempie di coriandoli rossi. Resti immobile, mentre il venditore ti guarda sorpreso e ti rendi conto che sei tu a spingere il carretto, tra i cadaveri.
Ti risvegli su un lettino d’acciaio, sotto una luce bianca e fredda. Attorno a te, tende di plastica traslucida nascondono sagome distese, e l’odore di disinfettante si mescola a quello del sangue fresco. Cammini tra file di corpi aperti, ma quando li sfiori capisci che respirano ancora. Poi ne vedi uno muoversi: il suo torace è cucito con fili neri. Ti fissa e sussurra “dove è il mio cuore?”. In quel momento lo senti pulsare: è lì, vivo e grondante nella tua mano. La luce si spegne e l’aria si riempie di un battito forte e continuo che ti rimbomba nella testa.
Sei seduto ad un tavolo sormontato da centrini in pizzo, manicaretti di ogni genere e tazzine finemente decorate; una teiera fumante svetta al centro della tavolata, pronta per essere usata. La luce che filtra dalle finestre indica che è pomeriggio, ma nessuno sembra voglia unirsi a te: le altre sedie sono desolatamente vuote. Solo una bambola di porcellana, seduta al lato opposto del tavolo, è disposta a farti compagnia. Legata alla seduta con una corda spessa, le sue orbite oscure e vuote sono ricolme di insetti. Quando distogli lo sguardo, realizzi che tutto il cibo sul tavolo è marcio. Cerchi di alzarti, ma ti rendi conto di essere a tua volta incatenato alla sedia e che il vuoto che percepisci nel suo sguardo, in realtà è dentro di te.
Una distesa bianca a perdita d’occhio, tutto intorno a te. Orme sparse che si diramano in ogni direzione: la neve che cade dal cielo le coprirà presto. Stai seguendo una delle scie anche se non sai dove ti porteranno. Sono ore che cammini cercando di scaldarti, ma ti sembra di non avanzare mai, qualunque direzione tu prenda. Continui a passare accanto a quel cumulo di neve che nasconde la carcassa sventrata di un mezzo a motore. Un SUV, un camioncino, non riesci a capirlo e nonostante la curiosità ti divori, le tue mani sono troppo atrofizzate anche solo per ipotizzare di metterti a scavare. Continui a camminare, ma senti che ogni respiro potrebbe essere l’ultimo e non ti resta molto tempo prima che il gelo ti divori.
Devi scappare. È la tua unica certezza, in questo momento: chiunque ti stia seguendo non deve raggiungerti. Non deve prenderti. Ma le strade della città sono deserte e non sembra esserci nessuno oltre a te. Dove nascondersi? Come sfuggire al proprio destino? Ti volti, intravedi una sagoma scura in fondo alla via: sta arrivando. Un altro passo e la suola della tua scarpa affonda in un terreno melmoso; perdi l’equilibrio, cadi. Appoggi le mani per attutire il colpo ed è così che ti rendi conto che non è fango, ma sangue. Ti rialzi terrorizzato, in mano un’arma: da dove arriva? In fondo alla via, davanti a te, una figura si volta a guardarti terrorizzata. Perché il cacciatore sei tu.
Ti trovi davanti ad uno schermo di un computer. E’ acceso ma completamente nero. Più lo osservi e più ti accorgi che qualcosa non va: l’ambiente intorno a te, già sfocato, si fa sempre più buio. Ti senti inghiottito da quella osurità che ti toglie il fiato. Poi ti accorgi di essere nel monitor. Sei tu quell’oscurità e osservi te stesso dall’altra parte, appollaiato su una sedia con lo sguardo che esprime un profondo panico. Vedi apparire sulla superficie dello schermo, da dietro, una finestra di sistema. Mostra il tuo nome, seguito da una sola parola: Error.
Cammini tra le sale immense di un museo, illuminate da una luce lattiginosa. Ogni quadro, ogni statua, ogni opera è svanita. Al loro posto, il nulla: piedistalli vuoti, cornici prive di tela. Ti rendi conto che tutto è stato trafugato e che la bellezza stessa dal mondo è definitivamente sparita. Non esiste più nulla da contemplare. Rimani solo tu e un silenzio che preannuncia un’altra scomparsa, la tua.
Ti trovi in un grattacielo che non finisce mai di salire. Ogni piano è un ufficio. Su alcuni grandi monitor appesi compaiono grafici che puntano feroci verso l’alto, su altri pubblicità continue con uomini incravattati che fanno firmare contratti a operai, famiglie, anziani. Tutti sorridono e sono felici. Ma tu sai che le cose non sono come appaiono. Questo posto è un’immensa truffa e tu sei l’unico a saperlo. Provi a urlare, ad avvertire, a minacciare che chiamerai la polizia. Ma non c’è nessuno ad ascoltarti. Poi arriva una donna in tailleur con un grande sorriso. Veramente troppo grande: hai paura che da un momento all’altro possa aprirla e inghioittirti. Ma non sembra minacciosa, ti prende le mani e le stringe ringraziandoti: “Il rendimento è stato eccezionale, grazie”.
Sui monitor ora solo video di gente in lacrime, disperata e sul lastrico. Tra loro vedi i tuoi amici, la tua famiglia: ma è troppo tardi ormai.
Ti stai preparando per una riunione importante, uno di quegli eventi che potrebbero cambiare completamente il tuo futuro e quello di molti altri. Ti sei alzato presto per ripassare il tuo discorso e continui a ripeterlo davanti allo specchio, prestando attenzione a tutti i dettagli. Ogni parola, ogni gesto è volto a farti raggiungere l’obiettivo. In cuor tuo sai di aver sacrificato qualcosa – o qualcuno – lungo la strada, ma questo non ti ha mai dato problemi. Adesso però… non riesci a ricordare cosa sei stato disposto a perdere. L’angoscia ti prende. Incespichi sulle parole. Perdi il filo del discorso. Il tuo riflesso… Chi è quella persona? E’ un altro, una creatura mostruosa, uscita dal peggiore degli incubi. Ti sfiori il viso… Potrebbe essere più vera di quanto ricordi.
Tic-tac. Tic-tac. L’orologio è fermo, le lancette non si muovono: questo rumore è tutto nella tua testa. Tic-tac. Tic-tac. Ti aggiri per casa tremando come una foglia, aprendo ogni anta, ogni cassetto ma niente da fare: il flacone delle medicine non c’è. Il mal di testa ti sta uccidendo, ti annebbia la vista e rallenta i tuoi movimenti. Tic-tac. Tic-tac. Finalmente rovistando tra i resti della cena take-away di ieri riesci a trovare il flacone. Ingoi le pillole, ma il sollievo dura solo un istante. Tic-tac. Tic-tac. Un dolore indescrivibile ti colpisce alla testa, strappandoti un gemito. Il cranio si spacca dall’interno con un rumore sordo. Qualcosa preme per uscire e tu non puoi fermarlo.
Piove e stai scavando una fossa, una manciata di terra dopo l’altra; uno sporco lavoro ma qualcuno deve pur farlo, no? Lanci un’occhiata alla lapide e trasali: riporta il tuo nome. Lasci cadere la pala, arretri di un passo e il tuo piede affonda nel terreno. Smuovi la gamba per cercare di liberarla e un orrendo rumore di risucchio accompagna il gesto vano: affondi. Più ti divincoli, più le sabbie mobili ti inghiottono. Urli, alla ricerca di aiuto, ma un tuono copre la tua voce. Guardando in basso ti rendi conto con orrore che in realtà sono decine di mani che ti stanno trascinando, inesorabilmente, nella tua tomba.
La corrente ti sta trascinando via. Lotti disperatamente per riemergere, ma ogni volta che cerchi di respirare, un nuovo mulinello ti trascina in basso. Non sei solo: ci sono altre persone attorno a te, vittime della stessa sorte. Non hai modo di raggiungerle, né potete sperare in qualche appiglio: attorno a voi solo acqua per miglia e miglia. Nuotare non serve a niente: continui a provarci ma i vestiti bagnati ti trascinano più a fondo ad ogni movimento e i polmoni bruciano per la mancanza d’aria. La morte è sempre più vicina, ma non arriva mai. Hai come la sensazione che resterai lì a galleggiare per sempre, aspettando la fine.
Un raggio di sole ti colpisce il viso. Vorresti dormire ancora un po’ ma ormai il sonno è scivolato via, complice la posa scomoda che hai assunto. Apri gli occhi controvoglia e il tuo cuore perde un battito: sei affacciato su uno strapiombo. Cerchi di arretrare e ti accorgi di essere incatenato al fianco della montagna. Non sai come sei finito lì. Non sai come andartene ed è mentre rifletti su questo dettaglio che un’ombra oscura il sole: un enorme rapace scende in picchiata verso di te. Ti squarcia il ventre con becco e artigli, banchetta con la tua carne. Quando stai per perdere i sensi, ti abbandona esanime e si rialza in volo. Come nei miti greci, il tuo corpo si rigenera. Non appena il processo è completo, il tempo di un respiro e il tuo carnefice ricompare nel cielo, monito di un’eterna condanna.
Una pedana circolare con una gabbia metallica attorno: questo il luogo in cui sei ora. Un ring per scommesse clandestine, dove qualche disperato combatte per il divertimento di ricchi ludopatici assetati di sangue. Ne hai già visti diversi venir trascinati via esanimi; ora tocca a te. Il tuo è un avversario senza volto e senza identità: più ti sforzi di metterlo a fuoco, meno lo vedi. Ti presentano alla folla e un coro di fischi e insulti riempie l’aria; non sei il favorito del pubblico e chiaramente sperano sia tu a perire in questa lotta all’ultimo sangue. Ma quando il match ha inizio, sembri l’unico smanioso di sopravvivere. Pugni, calci, ma lui non si piega né si spezza: incassa ogni colpo come farebbe un manichino. Più colpisci più sei tu a cedere: perché di fronte a te c’è il tuo riflesso, una tua copia. E meriti ogni colpo.
Ti trovi in una cattedrale immensa, il cui soffitto è tanto alto da scomparire nell’oscurità. Le colonne si torcono come corpi in preghiera e ogni vetrata raffigura la stessa figura: un uomo in tonaca, il volto coperto. Attorno a te, centinaia di candele si spengono una dopo l’altra, finché resta solo una fiamma — quella che arde sul pulpito, dove il sacerdote tiene in mano non un libro, ma uno specchio. Ti invita ad avvicinarti, ma quando guardi nel riflesso non vedi lui, né te: solo un buio che si dilata, divorando tutto.
Hai deciso di dare una possibilità a quello sgangherato Luna Park che ha aperto dietro casa, con le insegne arrugginite e le strutture di legno marcio. Perché non provare la casa degli orrori? Sembra perfetta per iniziare la serata. Insieme a te uno sparuto gruppo di persone con la tua stessa, folle idea. Entrate, solo per scoprire che la casa è desolatamente vuota. Eppure, ad ogni passo, un senso di soffocante claustrofobia ti colpisce: non stai bene. Nessuno di voi sta bene. Ma non c’è nessuna via d’uscita, per quanto proviate a cercarla. Ti accorgi con orrore che state andando a pezzi. La pelle si stacca, cade a brandelli sul pavimento; i muscoli la seguono, poco alla volta. Quando anche le viscere non più imprigionate vanno ad imbrattare il suolo, di voi restano solo le ossa. La coscienza non svanisce: eternamente legati al vostro scheletro, non trovate pace nemmeno nella morte.
Ti aggiri per le strade di un villaggio contadino con torcia e forcone in mano. Come te, molte altre riempiono la notte di luci sinistre e cori violenti. “A MORTE LE STREGHE!” Urlate a squarciagola mentre alcune persone con sacchi di juta in testa vengono trascinate su un’enorme catasta di legna, in mezzo alla quale svettano alcuni pali verticali. Quando tutte le streghe sono legate, ognuno di voi lancia la sua torcia per appiccare il fuoco, urla di giubilo ad accompagnare la mattanza. L’odore acre del fumo ti riempie le narici; tossisci, ti si annebbia la vista e all’improvviso non vedi più niente. Il calore del fuoco ti avvolge: improvvisamente sei sulla pira, legato a un palo. Sei una strega.
Una vita onesta, semplice. Ti prendi prendi cura dei tuoi animali e del tuo orto. Dalla vecchia radio, sulla veranda, escono le note di una vecchia canzone. La stai canticchiando, ma all’improvviso il segnale si fa distorto: una voce? Non la capisci, pronuncia parole incomprensibili. Senti dei brividi gelidi lungo la schiena quando ti accorgi… che quella voce è la tua. Ogni volta che giri il capo, uno degli animali si accascia al suolo e l’erba appassisce. La desolazione ha abbracciato il mondo: lo dice anche quel messaggio incomprensibile alla radio. In fondo al tuo vialetto, una figura solitaria si staglia all’orizzonte: non è umana. È una creatura antropomorfa, fatta di piante e animali. La sua voce è quella alla radio: sei tu.
L’odore di torta di mele nell’aria, il rilassante cinguettio degli uccellini fuori dalla finestra. Dall’altro lato del tavolo un bambino ti sorride, dietro la sua cucina in miniatura, piena di utensili e cibo di plastica: fingere di aiutarti è un gioco come un altro. Il sole splende, è una bella giornata, ideale per un barbecue. Così hai deciso di prendere quel pezzo di carne buona, comprata dal macellaio, e di prepararla mentre la griglia in cortile si scalda. Non ricordavi fosse così tanta – chissà a cosa pensavi quando hai fatto l’acquisto! – ma una difficoltà in più non fermerà certo i tuoi piani. Procedi spedito, un colpo di mannaia dopo l’altro, ma ad ogni pezzo che si stacca corrisponde una lacrima sul volto del bambino. Ben presto il piacevole profumo dei dolci tramuta in un odore dolciastro, nauseabondo. All’improvviso, il mondo si tinge di rosso: tu, il tavolo, tutto è ricoperto di sangue. Davanti a te, il corpo martoriato una donna che ti fissa con occhi vitrei. Il coltello è nelle mani del bambino, che ti guarda con odio: non hai mai avuto così tanta paura.
Ti trovi in una sala operatoria che non è una sala operatoria. Le pareti sono specchi, e sul tavolo non c’è un paziente, ma te stesso. Ogni strumento chirurgico riflette una parte diversa del tuo volto, mentre intorno a te figure in camice si muovono senza volto, coordinando gesti perfetti. La luce al neon è abbagliante, ma più osservi, più tutto diventa opaco. Le ombre si moltiplicano, e ti accorgi che non stai salvando vite, ma svuotandole. Il battito dei monitor si confonde con il tuo stesso respiro, fino a che un solo suono resta: il silenzio dell’etica che muore.